Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza – Julian Jaynes

Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza
Julian Jaynes

L’opera scientifica che più di ogni altra ci ha avvicinato, in questi ultimi anni, a quel «teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri» che si chiama coscienza.

Che cos’è la coscienza? Questa, che per noi è l’esperienza più immediata e vicina, questo «teatro segreto fatto di monologhi senza parole e di consigli prevenienti, dimora invisibile di tutti gli umori, le meditazioni e i misteri», continua tuttora ad aleggiare, come oggetto inafferrabile, nella ricerca scientifica e filosofica. Julian Jaynes, psicologo sperimentale di formazione, accenna in questo libro una risposta davvero nuova all’antico quesito. E non vuole soltanto mostrarci che cosa la coscienza non è (attraverso una disamina devastante delle teorie correnti sul tema), ma che cosa essa è e come è nata, in un intreccio audacissimo fra neurofisiologia, teoria del linguaggio e storia. Il punto di partenza è qui la divisione del cervello in due emisferi. Sappiamo che uno solo di tali emisferi (generalmente il sinistro) presiede al linguaggio e domina la vita cosciente. Qual è allora la funzione dell’altro emisfero, legato da molteplici nessi all’emozione? Chi abita, chi ha abitato quell’«emisfero muto», del quale oggi riconosciamo di sapere così poco? La tesi di Jaynes è che l’emisfero destro sia stato abitato dalle voci degli dèi e che la struttura della «mente bicamerale» spieghi la nostra irriducibile divisione in due entità: divisione che un tempo fu quella fra «l’individuo e il suo dio». La coscienza, quale oggi la intendiamo, sarebbe dunque una forma recente, faticosamente conquistata, che si distacca dal fondo arcaico della «mente bicamerale». Con un’analisi serrata di testimonianze letterarie e archeologiche, soprattutto mesopotamiche, greche ed ebraiche, Jaynes disegna il profilo della «mente bicamerale» in quanto fonte dell’autorità e del culto, quale si è manifestata nella storia delle grandi civiltà. E, all’interno di essa, individua lo sviluppo di un’altra forma della mente, che prenderà il suo posto dopo un «crollo» dovuto a fattori interni ed esterni. Tale crollo separa per sempre il mondo arcaico da quello che diventerà il nostro. È questo il punto in cui Jaynes situa «l’avvento della coscienza» (intesa nel senso moderno), ultima fase di un lungo processo di «passaggio da una mente uditiva a una mente visiva». Ma la bicameralità della mente non per questo scompare: tutta la storia è traversata da una nostalgia verso un’altra mente, tutta la nostra vita psichica testimonia numerosi fenomeni, dalla possessione alla schizofrenia, che a quell’altra mente rinviano. Ciò che noi chiamiamo storia è «il lento ritrarsi della marea delle voci e delle presenze divine». Ma la nostra mente a quelle voci e presenze continua a riferirsi, anche se non sa più come nominarle e ascoltarle. La dominanza dell’emisfero linguistico non riesce a cancellare l’altra metà del cervello. Così la coscienza continua a essere, come scrisse Shelley a proposito della creazione poetica, «un carbone quasi spento, che una qualche influenza invisibile, come un vento incostante, può avvivare dandogli un transitorio splendore», anche se «le parti coscienti della nostra natura non sono in grado di profetizzare né il suo approssimarsi né la sua partenza».